Il furto dell’attenzione e del tempo nell’epoca della sorveglianza

Di Nora Sophie Nicolaus e Luigi D’Elia. Il tempo, ce lo insegna bene la musica, è quel flusso in cui siamo immersi dove l’insieme delle nostre azioni possono costruire un capolavoro, un brano orecchiabile, oppure un disastro. Così succede anche con la vita: in base a quello che facciamo, si otterrà come risultato un’esistenza al […]

Di Nora Sophie Nicolaus e Luigi D’Elia.

Il tempo, ce lo insegna bene la musica, è quel flusso in cui siamo immersi dove l’insieme delle nostre azioni possono costruire un capolavoro, un brano orecchiabile, oppure un disastro. Così succede anche con la vita: in base a quello che facciamo, si otterrà come risultato un’esistenza al pari di una straordinaria opera d’arte, oppure una mediocre dal retrogusto dolce-amaro dell’incompiuto o, peggio, sprecata. Parole dure, vero, ma è così: se non impariamo a padroneggiare il nostro tempo – e dunque a scegliere consapevolmente quali corde dell’esistenza far vibrare e come assegnarlo di volta in volta – ci perdiamo l’occasione di comporre la nostra personalissima melodia nell’universo! Tuttavia, ci domandiamo in questo articolo: come riuscire in tale impresa se si è immersi in un contesto governato da un sistema predatorio, che si nutre della nostra attenzione (e dunque tempo)?

Indice

Il capitalismo della sorveglianza

L’identità brandizzata

Modelli insostenibili

Smart-phone e cultura della dis-attenzione

ADHD e device digitali in Età Evolutiva

Quanto tempo sto a cincischiare su web? I rischi di una dipendenza

Racconti in ambito clinico di un’attenzione rubata

Quando il device diventa un espediente per fuggire dai doveri del corpo

Smetti di regalare il tuo tempo, o perlomeno scegli consapevolmente quando e come farlo

Il capitalismo della sorveglianza

Hai mai sentito parlare di questa espressione?

L’ha coniata la sociologa Shoshana Zuboff, business analyst e docente presso la Harward Business School, per evidenziare la differenza col precedente capitalismo dell’informazione (S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Luiss University Press, 2023).

Mentre quest’ultimo fu difatti un termine immaginato a metà degli anni Cinquanta del Novecento, dall’economista austriaco Fritz Machlup, per descrivere il ruolo sempre più centrale che stava assumendo l’informazione, di cui erano testimonianza la moltiplicazione di attività come ricerca e sviluppo, servizi professionali, telecomunicazioni, etc, con “capitalismo della sorveglianza” la Zuboff notifica un nuovo passaggio in cui l’informazione diventa la pregiata materia prima di un sistema di controllo e monitoraggio capillare.

“L’esperienza umana è ormai materia prima gratuita che viene trasformata in dati comportamentali… e poi venduta come ‘prodotti di previsione’ in un nuovo mercato quello dei ‘mercati comportamentali a termine” (Zuboff, Op.Cit.)

Google, Facebook, Tik Tok, Amazon e le varie big-tech company dello scenario liberal-globalista, utilizzano i dati per indagare, prevedere e orientare i comportamenti degli utenti.

Come?

Tramite strategie di marketing persuasivo fatto da milioni di reel, meme, annunci, notizie, atto a colonizzare l’immaginario delle persone, a definirne ambizioni e valori, a tracciarne i possibili percorsi ed esiti. Il prossimo passo è anticipare gusti e bisogni e con ciò spegnere ogni vissuto di mancanza su cui si struttura ogni pensiero e ogni desiderio.

Perché?

Solita vecchia storia: soldi e potere. Chi li detiene, governa il mondo. Oggi queste compagnie vantano dei patrimoni che fanno invidia ai PIL di molte nazioni.

L’identità brandizzata

In questo contesto sempre più dominato dalle logiche della performatività, dell’ottimizzazione e della competizione, la nostra attenzione (e con essa il nostro tempo) assume le sembianze del bersaglio primario: ogni azione di mercato viene appositamente studiata in maniera da catturarla.

Se negli anni ’60 Guy Debord comprende che nell’era moderna la merce si era sublimata in spettacolo e in apparenza, oggi a sua volta, come processo di involuzione del capitalismo, lo spettacolo s’è ulteriormente sublimato in vampirizzazione ipnotica dell’attenzione.

La nostra attenzione è diventata la merce più preziosa, nonché il lavoro che gratuitamente la nostra insonnia indotta fornisce anche di notte.

L’identità aziendale rappresentata dal brand, viene associata all’identità dei target (ovvero degli utenti da colpire tramite campagne pubblicitarie e azioni di marketing), comportando una sorta di brandizzazione dell’esistenza stessa: troviamo la massima espressione di questa dimensione negli influencer.

Pensiamo a Chiara Ferragni la cui intera vita viene condotta in funzione del suo business, a sua volta incentrato sulla sua identità.

Questione di “posizionamento”, si direbbe in gergo markettaro.

Ma se nel caso di Chiara Ferragni i benefici e il successo che ne derivano possono essere considerati a tutto tondo il frutto di una scelta ben consapevole, si potrà mai dire lo stesso di tutte quelle ragazzine e ragazzini che vi prendono esempio? I modelli promossi sono sostenibili? Su quali parti di noi fanno leva e in che modo incide sulla nostra gestione del tempo?

Modelli insostenibili

Se è vero che le nuove tecnologie associate alle attuali logiche economiche possono, in rari casi, portare ad una rapida e impressionante ascesa di singoli individui capaci di cavalcare l’onda, rimane un dato di fatto che su larga scala questo modello risulta insostenibile: non solo sotto al profilo economico la forbice che si viene a creare tra super ricchi e super poveri è vergognosamente marcata, ma anche da un punto di vista identitario si richiede alle persone di correre costantemente sulla ruota del criceto per diventare un qualcosa o un qualcuno che, al momento, non esiste.

Tutto avviene in funzione del verbo “apparire”.

Finché la spinta all’apparenza sarà così predominante, non vi sarà mai reale spazio per concedere alle persone il tempo per poter essere realmente loro stesse.

Ma oltre all’incognita economica, identitaria e relazionale (perché il chi sei e cos’hai sono spessissimo considerati criteri di valutazione primaria ai fini delle relazioni), dobbiamo anche puntare la nostra attenzione su come si sta modificando la nostra capacità di apprendimento.

Smart-phone e cultura della dis-attenzione

Nell’era del 4.0, non vi è dubbio, cambiano i sistemi di apprendimento. Anzi, a dirla tutta questo era già successo agli albori del web, con il manifestarsi dei primi ipertesti che, per quanto straordinariamente utili nel creare delle mappe di sapere virtuale, hanno designato la prima tipologia di organizzazione del sapere incentrata sulla “fruizione superficiale”.

Per comprendere questo concetto, occorre domandarsi: che differenza c’è tra l’apprendere informazioni tramite un libro oppure tramite smart-phone?

Nel primo caso, col libro, ci troviamo di fronte ad uno strumento analogico. Significa che vi è una continuità sequenziale dei contenuti su un dato supporto (in questo caso da carta del libro). Ciò favorisce l’apprendimento conseguenziale, basato sull’allenamento della concentrazione e della pazienza.

Nel secondo caso, invece, ci troviamo di fronte agli strumenti digitali i cui contenuti sono frammentati. Chi naviga spesso su internet, lo sa bene: viene in mente una cosa, la si ricerca, poi la nostra attenzione viene subito attratta da qualcos’altro, allora si salta di palo in frasca.

Succede così che gradualmente, navigata dopo navigata, finiamo col abituarci a quella superficiale leggerezza. Un nuovo tipo di apprendimento che esige un’attenzione minima, in un campo di battaglia fatto di centinaia di migliaia di brand che cercano di attirarla e fagocitarla a vantaggio del proprio business.

ADHD e device digitali in Età Evolutiva

In una ricerca (Chaelin & al., 2018) viene dimostrato come l’uso di device multimediali possano essere collegati allo sviluppo del disturbo da iperattività e deficit di attenzione (ADHD, dall’inglese Attention deficit hyperactivity disorder).

Pubblicato sul Journal of the American Medical Association, questo studio ha preso in esame 2587 ragazzi, tra i 15 e i 16 anni, i quali originariamente non avevano una diagnosi di ADHD.

Questi giovanissimi sono stati suddivisi in tre gruppi cui è stata data indicazione di svolgere 14 diverse attività (tra cui controllare i social network, chattare, etc), con una diversificazione per ciascun gruppo data dall’intensità di utilizzo dello strumento digitale.

Due due anni, è stato rilevato che i ragazzi che avevano utilizzato con una più elevata frequenza i device, presentavano circa il doppio di probabilità di sviluppo di ADHD rispetto agli altri.

Insomma. Anche qui è bene ribadirlo: ogni strumento tecnologico (digitale o non, dunque libri inclusi), esercita un potere neuroplastico sul nostro cervello. Lo modifica. Il punto da comprendere per tutelarci e per avere cura delle future generazioni è quello di comprendere come.

Quanto tempo sto a cincischiare sul web? I rischi della dipendenza

Il tempo che regaliamo quotidianamente alle big tech che ci monitorano e controllano, ogni qualvolta perdiamo le ore su Tik Tok, o su Instagram o quant’altro, è un tempo di vita che stiamo dedicando al nulla cosmico.

Diamo un’occhiata al report annuale di Digital 2023 e ci rendiamo conto dell’enorme tempo medio passato su internet ogni giorno (5 ore e 55 minuti) Tabella 1, dell’andamento crescente di utenti negli ultimi anni (solo quest’anno un leggerissimo arretramento), Tabella 2, e delle ragioni che ci trattengono maggiormente sul web, Tabella 3.

tempo
Tabella 1
tempo
Tabella 2
Tempo sul web
Tabella 3

Considerando che questi dati riferiscono dati medi, questo significa che nella distribuzione generale qualcuno sta sul web anche più di 12 ore al giorno e qualcuno 0.

Sono dati che comunque sono impressionanti: 6 ore al giorno a cincischiare; 6 ore al giorno ad accarezzare un oggetto e ignorare le persone vicine amate; 6 ore al giorno sottratte a curiosità, esplorazione, natura, bellezza, e regalate a chi ci sfrutta.

Il problema specifico dei device digitali è che possono creare dipendenza: stimolando le endorfine, notifica dopo notifica, iniziamo a sperimentare una sensazione di malessere il giorno in cui riceviamo meno attenzioni.

Accarezzando il nostro ego, questi strumenti sono in grado di insinuare la convinzione (soprattutto nei giovanissimi la cui identità è ancora in formazione) che il proprio valore sia direttamente correlabile al proprio grado di successo online.

Questo è pericoloso perché può portare a uno scollamento da se stessi, ad un distacco da motivazioni profonde, per cui si tende a aderire a processi di omologazione a falsi-sé digitali sempre più fagocitanti.

Diventa allora subito comprensibile come la diffusione di comportamenti disfunzionali possa assumere caratteristiche socialmente rilevanti e virali (ci basti pensare al cyber bullismo, alla mercificazione del corpo e delle sua immagine come business, etc).

Inutile quasi dirlo: tutto il processo di formazione e di consolidamento dell’autostima rischia di risentirne anche in maniera molto grave.

Racconti in ambito clinico di un’attenzione rubata

Se a partire dai resoconti delle sedute di psicoterapia selezioniamo i racconti delle fasce di età più giovanili, i cosiddetti nativi digitali, e di coloro che si soffermano online molto più in là delle medie qui esposte, ci rendiamo subito conto che non è per nulla infrequente la realtà di persone che hanno oramai invertito il giorno con la notte.

Rileviamo frequenti disturbi del sonno, un forte stress legato a questa violenza sui propri ritmi circadiani, o veri e propri sintomi ansioso-depressivi legati all’eccesso di ore passate sul web a non fare nulla o quasi.

In alcuni casi è possibile riscontrare una vera dipendenza da comportamento di una certa gravità. Ore sottratte alla vita sociale, alla propria vocazione in embrione, alla propria formazione umana.

Si parla di tiktoktizzazione del web, tendenza in forte ascesa a imprigionare l’attenzione ad una serie infinita di brevi e brevissimi reel, storie o filmati per lo più sciocchi, divertenti, curiosi, bizzarri, leggeri, e talora anche inquietanti e per lo più riprodotti e imitati.

Uno spostamento progressivo ma anche velocissimo dall’articolato utilizzo di immagini, parole, chat e video del “vecchio” Facebook, oramai spazio di azione sempre meno attraente per le giovani generazioni, ad un uso quasi del tutto colonizzato da immagini e video per lo più senza alcun contenuto e privo di qualunque forma di creatività.

Ma pare che sia proprio questa mancanza di spessore e contenuto che paradossalmente crea quell’atmosfera ipnotica capace di incollare soprattutto le nuove generazioni (ma non solo) per ore ed ore al device, come zombie.

Quando il device diventa un espediente per fuggire dai doveri del corpo

Vi è anche un altro aspetto di cui tenere conto, che magari è un po’ meno noto ma in fondo si presenta come fenomeno autoevidente: il device digitale può essere anche utilizzato come strumento di fuga dalla realtà.

I “doveri del corpo”, che rispondono ai criteri del mondo reale, sono ben diversi dall’esperienza fornita dal mondo digitale che, per la sua fluidità e malleabilità, è quasi più assimilabile all’esperienza onirica.

Il corpo richiede attenzioni, deve svolgere delle fatiche, esige, come nel caso della lettura di un libro, sempre costanza e pazienza, poiché la realtà fisica-materiale è anch’essa propriamente analogica.

Tutt’altra storia invece l’inconsistenza del mondo digitale. Soprattutto quando utilizzato ai fini ludico-ricreativi, che invece permette uno stato di relax e passività nella quale il rischio di adagiarsi è molto elevato.

Ma questo dis-allenamento costante, che disabitua la mente e il corpo a resistere e a confrontarsi anche con le avversità sensoriali, fisiche e psicologiche della vita reale, produce in noi un cambiamento che, se visto dalla prospettiva biologica ed evoluzionistica, potrebbe portare a lungo andare una vera e propria metamorfosi fisiologica del genere umano.

Smetti di regalare il tuo tempo, o perlomeno scegli consapevolmente quando e come farlo

Da quanto abbiamo esposto risulta evidente che il lato oscuro dell’utilizzo di internet, agisce su più livelli. Tanto che, abbiamo parlato di:

  • rischi dati dalla confusione tra identità reale e falsi-sé digitali nell’ambito del personal branding;
  • possibili dipendenze;
  • disturbi dell’attenzione;
  • pericoli della socialità online (cyber bullismo, truffe, etc);
  • utilizzo dei device come strumento di fuga dalla realtà.

Bisogna inoltre considerare anche le problematiche relative all’accesso ai contenuti impropri o illeciti, anche in giovanissima età (pornografia, deep-web, etc).

Ciò detto, il rovescio della medaglia è che il web offre anche tantissime opportunità straordinarie: ha delle potenzialità creative, comunicative, organizzative e conoscitive che, se correttamente utilizzate, possono comportare grandi vantaggi per la persona, così come per la collettività.

Rilevarne i rischi e i pericoli intende essere un modo per riconoscerli ed evitarli per tempo, così da imparare ad utilizzare il nostro tempo in maniera costruttiva, selezionando attività e contenuti di qualità.

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