E se alla radice dei femminicidi ci fosse una questione di lingua (e di potere)?

Di Luigi D’Elia Il recente femminicidio di Giulia Cecchettin ha sconvolto tutti, ma ha anche spiazzato molti addetti ai lavori, non abituati a pensare a ragazzi poco più che ventenni, protagonisti di questa ennesima tragedia.  Il caso Giulia Chettelin L’idea che un giovane uomo, cresciuto in un clima culturale e mediatico nel quale da ormai […]

Di Luigi D’Elia

Il recente femminicidio di Giulia Cecchettin ha sconvolto tutti, ma ha anche spiazzato molti addetti ai lavori, non abituati a pensare a ragazzi poco più che ventenni, protagonisti di questa ennesima tragedia. 


Il caso Giulia Chettelin

Giulia  Checchetin

L’idea che un giovane uomo, cresciuto in un clima culturale e mediatico nel quale da ormai più di quindici anni si parla e si condannano i femminicidi, possa diventare ugualmente strumento di tale violenza, lascia uno strano sapore. Se nemmeno la condanna sociale riesce a frenare la mano di un ragazzo di cultura medio-alta, ebbene allora forse il fenomeno del quale ci stiamo occupando travalica la nostra capacità di comprensione e richiede uno sforzo maggiore o quanto meno un supplemento di analisi.

Cosa dicono i dati ISTAT sui femminicidi in Europa

I dati statistici (ISTAT) ci indicano che il femminicidio non solo non è un fenomeno recente, e che nei decenni precedenti era almeno doppio rispetto ai giorni nostri, ma anche che nel nostro paese in particolare è in progressiva diminuzione da almeno 30 anni. Fortunatamente più se ne parla e meno accade e più diventa oggetto di repellenza sociale. Almeno da noi. Si continui incessantemente a parlarne dunque fino a quando non diventi un vero e proprio tabù.

Se guardiamo invece alle statistiche in ambito europeo, l’Italia è fortunatamente agli ultimi posti, mentre con numeri davvero preoccupanti la Lettonia mantiene saldamente il primo posto con molto distacco dal Regno Unito, Lituania, Ungheria, Croazia e via via tutte le altre.

Riflessioni sul fenomeno dei femminicidi

Disgusto e condanna sociale e mediatica hanno dunque un impatto nettamente differente sulle diverse società e nazioni, e già questo ci sembra un dato che va certamente interpretato. Il problema è che non sappiamo esattamente come.

Tutti siamo d’accordo che alla radice del fenomeno ci siano contemporaneamente fattori psicologici, educativi, familiari, sociali, culturali e addirittura antropologici legati alla storia ancestrale della nostra specie. Voler restringere la particolarità del fenomeno e la sua unicità (solo donne uccise da solo uomini e quasi mai viceversa) ad uno solo di questi fattori (solo un problema psicopatologico, solo un problema di educazione maschile, solo un problema di prevalenza di codici patriarcali, solo un problema di esempi familiari, etc) appare come operazione riduzionista che ci fa sfuggire il fenomeno nella sua globalità.

Fattori determinanti

Ed è proprio l’omicidio di Giulia Cecchettin nella sua particolarità (giovanissimi, colti, probabilmente informati) uno di quelli che, come una sberla, ci risvegliano dal torpore riduzionistico e ci costringono invece a revisionare l’intero fenomeno e a cercare altrove le ragioni al momento incomprensibili. Cosa investe così precocemente un ragazzo così giovane a tal punto da omologarlo a tutti gli altri maschi omicidi mediamente più grandi?

Naturalmente condividiamo con tutti gli addetti ai lavori che l’unica risposta vada data capillarmente nelle scuole e nelle famiglie attraverso l’educazione. Certo, ma proviamo prima a comprendere su cosa basare e come orientare questa benedetta educazione dei maschi.

Il femminicidio come iperoggetto

Volendo utilizzare una buona metafora descrittiva, il femminicidio è uno di quei fenomeni della realtà umana, che il filosofo Timothy Morton definirebbe come un iperoggetto, ovverosia un fenomeno che sfugge all’immediata comprensione dell’intelletto umano in quanto per lo più inafferrabile, in quanto non omogeneo nel tempo e nello spazio, ma allo stesso tempo, incombente e vischioso, ubiquitario.

Non c’è modo di catturare la natura di un iperoggetto (senza pretendere di comprenderlo compiutamente) se non attraverso approfondite ricerche, se non grazie a specifiche teorie della complessità, ma anche incrociandolo con altri iperoggetti. 

L’analisi incrociata tra iperoggetti

femminicidi

In un precedente mio vecchio articolo di 10 anni fa su questo stesso argomento, avevo tentato (ancora inconsapevolmente) questo incrocio tra iperoggetti ed in particolare tra l’iperoggetto femminicidio e l’iperoggetto apocalisse culturale (shock culturale), il sentimento di catastrofe che investe l’umanità in determinate condizioni, secondo la definizione dell’etnoantropologo Ernesto De Martino (La fine del mondo, Einaudi, 1977):

Nella vita religiosa dell’umanità il tema della fine del mondo appare in un contesto variamente escatologico, e cioè come periodica palingenesi cosmica o come riscatto definitivo dei mali inerenti l’esistenza mondana: si pensi per esempio al Capodanno delle civiltà agricole, ai movimenti apocalittici dei popoli coloniali nel secolo XIX e XX, al piano della storia della salvezza nella tradizione giudaico-cristiana, ai molteplici millenarismi di cui è disseminata la storia religiosa dell’occidente. In contrasto con questa prospettiva escatologica, l’attuale congiuntura culturale occidentale conosce il tema della fine al di fuori di qualsiasi orizzonte religioso di salvezza, e cioè come disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile: una catastrofe che narra con meticolosa e talora ossessiva accuratezza il disfarsi del configurato, l’estraniarsi del domestico, l’inoperabilità dell’operabile. […] il momento dell’abbandono senza compenso al vissuto del finire costituisce innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca […]”.

Lo spaesamento nelle crisi evolutive

L’esperienza dello spaesamento consiste proprio nella rottura catastrofica di un orizzonte domestico, familiare, abitudinario, riconoscibile e prevedibile in quanto ristretto, limitato, che secondo De Martino corrisponde nelle società “altre” (sia lontane nel tempo che geograficamente) con l’esperienza di crisi che oggi chiameremmo ”evolutive”, cioè crisi legate a cambiamenti periodici dello status ordinario (cambiamenti del ciclo vitale legati alla sessualità ad esempio, o vissuti traumatici delle comunità), laddove, viceversa, nelle società odierne così come nell’alterità delle esperienza psicopatologiche ciò corrisponde con il sentimento di rottura e di caduta senza redenzione, quindi di catastrofe.

Il conflitto tra l’interiorizzazione di un ordine sociale ancestrale maschile e il bisogno di emancipazione femminile odierno

Questo incrocio tra iperoggetti ineffabili riesce però a svelare che nel momento in cui lo spaesamento di cui parla l’antropologo avviene sul territorio del legame tra generi, assistiamo ad un fenomeno apparentemente e assolutamente illogico che ripropone la torre di Babele, ovverosia, l’uso di linguaggi emotivi radicalmente conflittuali e reciprocamente incomprensibili tra maschi e femmine.

Il “no” femminile è irricevibile dal marito, amante, fidanzato, stalker, non solo perché semplicemente geloso o possessivo, ma perché nel suo non-ascolto sovverte un ordinatore sociale ancestrale per il quale il padre, il marito, il maschio è sacralmente nominato, in questo orizzonte arcaico (probabilmente risalente all’età del rame, circa 6000 anni fa), come custode e protettore della famiglia, del suo ordine sacro affettivo. Come dimostrano ancora oggi alcune regole tribali in contesti che stiamo imparando a conoscere con gli immigrati pakistani in casa nostra, la vita delle donne è totalmente governata e orientata dai maschi di famiglia. Il femminicidio è previsto come risposta ad una vera e propria blasfemia operata da una donna che osi autodeterminarsi.

L’attacco (percepito) alla funzione ancestrale maschile

Ed ecco allora che effettuando un ulteriore incrocio tra gli iperoggetti femminicidio, apocalisse culturale (del patriarcato), linguaggio e potere, un po’ della nebbia comincia a diradarsi per mostrare il profilo di questo particolarissimo fenomeno per il quale assistiamo ad un babelismo assoluto

Da un lato, la donna in pericolo non interpreta e non categorizza con la dovuta attenzione l’angoscia e la rabbia sdegnosa dell’uomo scambiando e derubricando questi sentimenti come forme di semplice gelosia o possessività o scambiandoli come semplice psicopatologia e non riconoscendoli invece per quello che sono, cioè come indignazione per la lesa maestà e per blasfemia verso il ruolo sacro del maschile (che deve proteggere e mantenere l’ordine affettivo della famiglia a qualsiasi costo). Non basta una semplice gelosia o delusione amorosa, per quanto cogente, a determinare il proposito omicida, occorre che il maschio si senta investito di una funzione di ordine e giustizia verso l’infrazione del tessuto sacro.

Dall’altro lato, l’uomo (anche precedentemente non violento), vive specularmente il no e il sottrarsi della donna al riconoscimento della propria funzione ancestrale di padrone e governatore del sacro fuoco familiare (o anche solo della coppia), come linguaggio altrettanto incomprensibile e arbitrario, come infrazione grave di un ordine costituito, ed è esattamente questa la ragione che rende la morte dell’empia come misura congrua e commisurata agli occhi del femminicida.

Conclusione: esecuzione per “blasfemia”?

Non si vuole certo con questa descrizione a nostra volta derubricare il femminicidio a semplice regressione spirituale, laddove codici di una religiosità ancestrale offuscano una religiosità più moderna. Ma ci sembra che quello che accade ad una coppia dove avviene un femminicidio somigli moltissimo ad una esecuzione per blasfemia dove ad un certo punto i maschi contemporanei si sentono investiti di funzioni di ordine laddove l’estraniarsi del domestico e l’inoperabilità dell’operabile rendono i generi totalmente incomunicanti tra loro: i maschi nel tentativo disperato di re-impaesarsi, parlano lingue morte, le femmine uccise parlano viceversa la lingua dei viventi.

Rimane un mistero ancora per il sottoscritto: come mai questo scivolamento nell’apocalisse catastrofica e nella disperazione e relativo auto-investimento di giustizieri avvenga solo per alcuni uomini assassini e non per tutti gli altri.

Articoli recenti

Gli ultimi feedback pubblicati

Ho fatto un percorso di psicoterapia con la dottoressa Oggioni. Da subito è entrata in sintonia con me. Con tanta professionalità e gentilezza, mi ha aiutata a scoprire ed approfondire alcuni aspetti del mio carattere che mi portavano insoddisfazione. Sono riuscita a prenderne consapevolezza e ad accettarli. Grazie alla dottoressa, sono cambiata e sono molto più serena! Grazie! Un grazie infinite anche a questa rete che mette a disposizione un servizio così prezioso in modo accessibile a tutti

Laura

Grazie per questa opportunita’ unica. Avevo necessita’ di trovare un psicoterapeuta per intraprendere un percorso e grazie a voi penso di aver trovato quello giusto, nonostante le risorse non mi permettessero tariffe normali. Ho consigliato il sito agli amici. Molto positivo poter leggere le schede degli aderenti on line. Grazie ancora ! Cristina

Cristina

Dopo aver passato un anno universitario bloccato a causa di attacchi di panico e di ansia, ho contattato la dottoressa Martano nella speranza di trovare aiuto e supporto per raggiungere i miei obiettivi. La dottoressa Martano non mi ha aiutato semplicemente, esplorando le mie paure conducendomi all’obbiettivo di una laurea che ormai è prossima, ma mi ha anche fornito gli strumenti per affrontare serenamente la vita di tutti i giorni. Grazie!

Caterina Mandolo

Gli ultimi psicologi che hanno aderito