Cos’è il lavorismo? Come si configura oggigiorno e quali sono le sue attuali implicazioni sulla salute mentale dei pazienti? Secondo la prospettiva diagnostica della psicoterapia sociale è necessario comprendere il contesto del paziente e con esso naturalmente le evoluzioni antropologiche che lo investono. Sono infatti diversi i quadri percettivi della dimensione lavorativa nei quali le persone oggi possono essere immerse. Nel tentativo di indicare una possibile prima traccia di modelli di riferimento in tal senso, in questo articolo prenderemo in prestito dall’economista Andrea Fumagalli il concetto di biocapitalismo cognitivo (scenario subentrato con la quarta rivoluzione industriale al capitalismo fordista), che ci parla della trasformazione dell’esistenza stessa in un propulsore del consumismo.
Indice
Lavorismo e biocapitalismo cognitivo: quando il lavoro entra sotto pelle e si estende sulle 24h
In conclusione, sul tema dell’odierno lavorismo…
Lavorismo e biocapitalismo cognitivo: quando il lavoro entra sotto pelle e si estende sulle 24h
Oramai siamo ampiamente abituati a sentire parlare del capitalismo come di un sistema pernicioso, fortemente invasivo e difficilmente decostruibile a causa delle sue proprietà mutevoli, intrinsecamente plastiche e camaleontiche.
Insomma, il capitalismo globalista inteso come una sorta di “super blob” che non lascia scampo a niente e nessuno, ed è capace di assorbire nelle sue maglie produttive e consumistiche praticamente tutto, compreso i nostri mondi psichici che si alleano invisibilmente con i medesimi codici performativi.
Dalla prospettiva del professionista che si occupa di salute mentale e sta affrontando il tema del lavorismo (cioè, l’inquadramento della cultura vigente del lavoro) per meglio comprendere la dimensione psichica dei suoi pazienti, occorre certamente afferrare la questione andandovi a fondo: com’è noto, il tema della lavoro è indissolubilmente connesso al discorso identitario.
Il passaggio dal capitalismo fordista al biocapitalismo cognitivo
Si tratta di una questione di consapevolezza e di conoscenza, in effetti.
Consapevolezza di dove ci troviamo e muoviamo, e conoscenza di quale sia il quadro percettivo che emerge dal dialogo tra il contesto professionale e situazione individuale del paziente.
Parliamo in ora del contesto: nel suo libro “Bioeconomia e capitalismo cognitivo“, l’economista Andrea Fumagalli mostra come da circa trent’anni abbiamo assistito al superamento del capitalismo fordista fondato sulla produttività delle industrie, per entrare invece nell’Era Digitale basata sull’affermazione del paradigma tecnologico, incentrato sulla “data production e data management” (produzione e gestione dei dati).
Ne consegue che attualmente le aziende che agiscono da mega hub di archiviazione ed elaborazione dati (tra cui, per fare un esempio noto a tutti, Google) si sono affermate nello scenario lavorativo internazionale riuscendo a diventare indispensabili.
Da qui, la nascita di molteplici nuove professioni principalmente incentrate sulla capacità di gestione e sviluppo dello strumento tecnologico (le varie categorie di ingegneri informatici) e sulla produzione immateriale dell’immaginario (dagli esperti di marketing digitale fino agli artisti multimediali del cinema, della televisione, etc.).
Le conseguenze: cosa implica il biocapitalismo cognitivo
Il mondo del lavoro è cambiato e – se vogliamo dirla proprio tutta – con l’attuale sdoganamento delle Ai cambierà ancora più radicalmente.
Ma facciamo un passo indietro e, invece che lanciarci in speculazioni riguardanti possibili scenari futuri legati all’intelligenza artificiale e probabili derive transumaniste (affermazione progressiva delle biotecnologie e contaminazione macchina-uomo), cerchiamo ora di comprendere quale sia stata la maggiore implicazione esistenziale del passaggio al capitalismo biocognitivo.
A fare luce sulla nuova condizione umana e le criticità che essa porta con sé, stavolta è il professore di Sociologia dei Media, Vanni Codaluppi, nel suo saggio “Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni“.
L’autore ci mostra come le logiche del nuovo capitalismo, incentrate come dicevamo sulla data-production and management, ci abbiano portato verso una realtà in cui nei fatti stiamo lavorando sempre, 24h al giorno, spesso senza nemmeno rendercene conto.
Com’è possibile?
Grazie alle nostre attività online (in primis sui social network), dove ogni utente produce costantemente dati che vengono assorbiti, metabolizzati e restituiti sempre a quest’ultimo, stavolta sotto forma di proposte di marketing, che pertanto vanno ad alimentare nuovamente la macchina del consumismo.
Ogni volta che esprimiamo una preferenza, un’opinione o un disagio, stiamo cedendo nei fatti delle informazioni personali che le aziende riutilizzeranno per provare a venderci qualcosa.
Il biocapitalismo cognitivo si chiama così, dunque, proprio a indicare come le logiche produttive si siano estese ad ogni nostra attività, fino a piegare e sfruttare l’esistenza stessa come catalizzatore del consumo: il bio asservito al sistema, anziché il sistema a supporto del bio.
Ma chi me lo fa fare
Nel loro ultimo libro appena uscito Andrea Colamedici e Maura Gancitano (che s’intitola “Ma chi me lo fa fare” Edizioni Harper Collins) affrontano proprio questo passaggio storico nel quale ci troviamo, ovverosia la cogente delusione che la cultura del lavoro ha prodotto negli ultimi decenni nella sua progressiva involuzione verso un vero e proprio intrappolamento del soggetto contemporaneo sospinto sempre più verso vissuti depressivi, di sovraccarico e frustrazione e verso una consapevolezza che autorealizzazione e lavoro oramai non appartengono più allo stesso campo.
Lo scenario lavorativo nell’epoca del biocapitalismo cognitivo
Prova di quanto appena asserito è il fatto che povertà e lavoro oramai coesistono tranquillamente senza produrre scandalo in fasce sempre maggiori della popolazione, e che anche il conservare un lavoro apparentemente stabile non garantisce affatto una proporzionale stabilità o serenità esistenziale.
Nell’infrangersi dell’incantesimo del lavoro si rompono anche molte certezze precedentemente date come scontate: il rapporto tra impegno e realizzazione, tra merito e risultato, ma anche, aggiungiamo noi in una prospettiva futuristica, la vicina fine del rapporto tra lavoro e reddito. Infatti, tutto lascia prevedere che le società del futuro dovranno giocoforza separare sempre più radicalmente il reddito dal lavoro dal momento che nessuno sforzo umano potrà mai assicurare il mantenimento degli attuali stili di vita e del potere di acquisto se pensiamo alla consistenza ridicola della maggioranza dei salari da lavoro.
L’odierno lavorismo e l’impatto sulla salute mentale
Per giungere, infine, alle questioni a noi più vicine, riguardanti la salute mentale dei nostri pazienti, emergono sempre più nella popolazione di coloro che si rivolgono ad uno psicoterapeuta, tipologie di pazienti che in altri tempi non avrebbero mai immaginato di utilizzare la preziosa risorsa di un aiuto psicologico.
Difficile quantificare con esattezza, ma la percezione è che almeno un terzo dei nostri attuali pazienti presenti serie problematiche direttamente o indirettamente connesse con il mondo del lavoro.
Proporzione questa inimmaginabile soltanto 10-20 anni fa.
Tra chi subisce normalmente mobbing, demansionamenti, licenziamenti in tronco; oppure chi vive il lavoro come totalizzante, come predatore assoluto di tempo e energie vitali che non lascia briciole di vitalità utilizzabili per famiglia, affetti, socialità, vita privata; oppure chi è di fatto strangolato dall’assedio della precarietà e della povertà pur cercando e trovando incessantemente lavoro; oppure infine chi vi si accosta, ancora giovane e inesperto, con la rassegnazione di chi sa di non poter neanche sognare di raggiungere i propri obiettivi formativi e lavorativi, per non parlare dei propri obiettivi evolutivi e famigliari.
Se sei fortunato e la tua famiglia è in grado di sostenere i costi elevatissimi di una formazione di alto livello, in ogni caso ti aspetta l’usuale tritacarne di una carriera che si presenta comunque come totalizzante. In caso contrario, ciò che realisticamente puoi attenderti è immaginare di finanziare i tuoi sogni emancipativi e lavorativi, attraverso una gavetta indefinita e sine die di “lavori-bancomat” (ci riferiamo a quei lavori precari svolti unicamente per pagare affitti e bollette), spezzettati, ingrati e spesso inutili.
Il ruolo degli psicoterapeuti nella gestione delle problematiche psicologiche legate alla dimensione del lavoro
Ci ritroviamo, come psicoterapeuti, di fronte a situazioni personali, sullo sfondo di questi scenari lavorativi così destrutturanti e così usuranti, e spesso così degradanti dal punto di vista umano, che i nostri principali paradigmi fondati sulla valorizzazione resiliente delle risorse personali perdono improvvisamente e totalmente di senso per poi accorgerci che di fronte a noi è avvenuto, a nostra insaputa e nel giro di poco tempo, un processo socio-culturale irreversibile e travolgente di vera e propria alienazione legato all’asservimento e all’assoggettamento delle persone ai propri destini lavorativi.
Uno psicoterapeuta contemporaneo deve perciò addestrarsi a incontrare persone spesso de-soggettualizzate, private di dignità e autodeterminazione, la cui salute e condizione psicologica è prevalentemente compromessa da tale condizione e verso le quali si è costretti a modificare la prospettiva terapeutica passando da una inerziale clinica delle resilienza (laddove i conflitti e i costrutti disfunzionali del mondo individuale e famigliare possono essere causa di maladattamenti), per traghettarci sempre più convintamente verso una clinica della resistenza, dove l’obiettivo non è più e non solo l’asse planetario dell’individuo e il suo mondo interno, bensì il complesso intreccio tra variabili personali e variabili sociali, come risulta evidente dal sempre maggiore peso iatrogeno del lavoro sulla vita delle persone.
In conclusione, sul tema dell’odierno lavorismo…
Se alle origini del capitalismo la promessa, mai mantenuta, per una civiltà più progredita era quella fordista-taylorista per la quale le innovazioni tecnologiche avrebbero, per ricaduta, creato un progresso per tutti e una riduzione delle disuguaglianze, oggi troviamo medesime promesse, altrettanto irreali e non mantenibili, secondo le quali merito, lavoro e opportunità sono obiettivi conseguibili per tutti, basta impegnarsi il più possibile. Si mantiene lo stesso schema e la stessa prospettiva di fortuna e felicità, ma nel frattempo le disuguaglianze si approfondiscono sempre più e i diritti sociali (istruzione, sanità, previdenza, sicurezza, abitazione) tendono a evaporare ovunque.
Nonostante ciò, tutti noi continuiamo a sperare in tali promesse.
Purtroppo i paradigmi che le nuove trasformazioni del lavoro ci stanno mostrando indicano una progressiva precarizzazione dei rapporti lavorativi, la delega sempre maggiore a soluzioni tecnologiche, stile algoritmi, stile riders, nella gestione dei contratti (da vedere a tal proposito il film di Ken Loach Sorry, we missed you del 2019), quindi lo spezzettamento della temporalità attraverso rapporti di lavoro di brevissimo tempo. Apparentemente la disoccupazione sembra nelle statistiche diminuire, ma lo scenario che abbiamo in realtà è quello di una miriade di occupazioni transitorie e sottopagate e totalmente prive di diritto per il lavoratore.