Questo articolo è il vincitore del secondo premio “Un contributo per il diritto alla salute psicologica”. Scopri di più
Negli ultimi anni, la richiesta di psicoterapia è cresciuta in modo esponenziale, riflettendo un disagio diffuso che coinvolge persone di tutte le età e condizioni sociali. In Italia, la richiesta di interventi psicologici è in costante aumento, passando dal 29% nel 2020 al 39% nel 2024; in particolare, la pandemia da Covid-19 ha rappresentato un fattore scatenante: il 39,2% del campione analizzato dichiara di aver intrapreso un percorso psicologico proprio durante la fase pandemica, sia in presenza che online, determinando una significativa espansione non solo con lo “spostamento” online dei terapeuti, ma anche con la nascita e la diffusione di piattaforme a essa dedicate (Quotidiano Sanità, 2024).
Tuttavia, l’aumento delle richieste di presa in carico psicoterapica non sembra andare di pari passo con un cambiamento significativo nella rappresentazione sociale della salute mentale. In molti casi – soprattutto sulle piattaforme online – le domande di aiuto sembrano più orientate al bisogno di “funzionare meglio” che a una reale consapevolezza del proprio disagio e del suo legame con l’ambiente e le relazioni. Questo orientamento rischia di ridurre la psicoterapia a uno strumento di adattamento individuale, in cui la richiesta implicita è spesso quella di diventare più performanti, produttivi e resilienti rispetto a un contesto che, non di rado, è esso stesso fonte di sofferenza che invece di essere riconosciuta come un segnale di un malessere più profondo – sociale, relazionale o culturale – viene trattata come un ostacolo da rimuovere.
In questo scenario, in cui da un lato vi è la tendenza a ridurre il disagio a un malfunzionamento interno all’individuo, dall’altro il rischio è quello che si perda la possibilità di leggere il sintomo come segnale di una frattura relazionale, sociale e culturale e sul quale occorrerebbe interrogarsi.
Ancora, questo tema dovrebbe anche condurre a un approfondimento sul ruolo etico e sociale della psicologia clinica e della psicoterapia, sia in presenza che online.
È a partire da questa consapevolezza che nasce il presente articolo frutto della riflessione condivisa del gruppo di lavoro del Consultorio IIPP di Palermo, una realtà clinica che coniuga l’intervento psicologico e psicoterapeutico con una lettura critica delle dinamiche sociali e culturali del nostro tempo. L’esperienza maturata nel territorio ha fatto nascere interrogativi sul senso e sulla funzione della cura in un’epoca di trasformazioni rapide e profonde. È a partire da questo sguardo che si propone una riflessione sul ruolo attuale della psicologia clinica e della psicoterapia, tra l’esigenza di rispondere alla sofferenza individuale, cercando di contribuire contemporaneamente alla costruzione di legami sociali più equi e solidali, e la necessità di adeguarsi all’odierna trasformazione digitale.
La diffusione delle tecnologie ha prodotto una nuova topografia del setting: il luogo dell’incontro non è più soltanto lo studio del clinico, ma un’interfaccia digitale; lo schermo diventa il dispositivo transizionale (Winnicott, 1971) per eccellenza, ponte simbolico tra due spazi intimi separati, ma connessi: quello del terapeuta e quello del paziente. Tuttavia, se non sostenuta da una riflessione clinica capace di preservare la tridimensionalità della relazione, questa transizione rischia di collassare sull’immagine, riducendosi a un’interazione bidimensionale. In questo tempo, la psicologia clinica e la psicoterapia si trovano sospese tra due polarità: da un lato l’espansione senza precedenti dell’accesso ai servizi di cura, la flessibilità spaziale e temporale del setting, l’abbattimento delle distanze; dall’altro, il rischio della frammentazione del legame, di una smaterializzazione dell’incontro. In questo scenario, la funzione sociale della psicoterapia è chiamata a ripensare profondamente la propria funzione simbolica, etica e trasformativa che richiede uno sguardo clinico capace di abitare criticamente il dispositivo digitale, senza cedere alla sua logica performativa, ma preservando la dimensione dell’incontro come spazio simbolico, incarnato e trasformativo.
Un altro degli effetti collaterali della digitalizzazione è la perdita della dimensione comunitaria del lavoro psicologico. Se la tecnologia consente di raggiungere il singolo ovunque si trovi, essa tende a disconnettere i professionisti dalle reti locali, dai quartieri, dalle scuole, dalle associazioni, dagli spazi collettivi in cui si costruiscono relazioni significative. Inoltre molti psicologi, lavorando da remoto possono vivere un isolamento legato all’assenza dell’incontro fisico con l’altro. In risposta a questa frammentazione, in alcune realtà si stanno sperimentando forme di supervisione di gruppo online o spazi di co-working clinico, nel tentativo di ricostruire connessioni e reti professionali.
Tuttavia, il rischio va oltre la sola dimensione organizzativa: lavorare da remoto può comportare una progressiva perdita delle reti territoriali e comunitarie che un tempo sostenevano il lavoro clinico, generando un duplice pericolo. Da un lato, si indebolisce la connessione tra il professionista e la comunità; dall’altro, si rafforza un’ideologia individualista che tende a collocare il disagio esclusivamente nella sfera privata, spostando l’attenzione dalle cause strutturali alle responsabilità del singolo. Questo alimenta la solitudine e la pressione alla performance (Illouz, 2008), e rischia di trasformare il lavoro psicologico – anche se inconsapevolmente – in uno strumento di adattamento alle logiche del sistema, piuttosto che in una leva di cambiamento sociale.
Se la sofferenza psichica individuale è dunque espressione di un disagio sociale, allora la cura non può essere solo individuale, ma deve anch’essa coinvolgere il sistema sociale e politico nel quale gli individui sono inseriti. Come afferma D’Elia (2024), “le criticità psichiche individuali raccontano automaticamente di criticità psichiche collettive, della sofferenza cioè di tutto il corpo sociale” (p. 30), che è portatore di una domanda e chiede risposte in ordine alla diffusione del disagio.
L’erogazione di servizi psicologici online, se non accompagnata da una riflessione critica e contestuale, rischia di neutralizzare la dimensione relazionale della sofferenza, leggendo il disagio come sola espressione di deficit individuali, da correggere, piuttosto che come esito di configurazioni ambientali e relazionali sfavorevoli (spesso non mentalizzate) dalla cultura dominante. La cura psicologica, infatti, implica un tempo di sospensione e di attesa, che si fonda sull’ascolto e sulla costruzione condivisa di senso: un processo che si scontra con l’attuale contesto storico, orientato all’immediatezza e alla rapidità della risposta, anche in ambito clinico.
Si delinea dunque una visione della psicoterapia che non si esaurisce nel rapporto duale, ma che include un orizzonte più ampio, in cui il soggetto è pensato come parte di una rete affettiva, culturale e simbolica. Come ha sostenuto Foulkes (1948), i disturbi psicologici vanno compresi non solo come tratti individuali, ma come fenomeni che emergono e si strutturano all’interno delle relazioni interpersonali. Pur riconoscendo che alcuni sintomi possono manifestarsi in modo marcato in un singolo individuo, l’autore sottolinea come sia sempre il gruppo, o il contesto relazionale, a dover essere chiamato in causa nel processo di cura.
A partire da tali presupposti nasce il concetto di psicoterapia sociale (D’Elia, 2024), che ripensa la psicoterapia come pratica capace di interrogare le trasformazioni sociali e riflettere sui cambiamenti del contesto e sulle modalità con cui questi cambiamenti si intrecciano con la psiche, ma non solo; infatti, poiché i fatti psichici sono sempre sia individuali che collettivi, occorre superare l’idea secondo cui gli interventi psicologici e psicoterapeutici debbano essere esclusivamente rivolti al singolo individuo e agli interventi dentro la stanza dello psicologo e/o psicoterapeuta, ma aprirsi a una dimensione più ampia.
Nella nostra esperienza, questo si è tradotto in interventi nei contesti scolastici e comunitari, in gruppi con genitori e nella collaborazione con servizi per promuovere la salute mentale come bene collettivo. Gli interventi dovrebbero coinvolgere tutto il contesto nel quale psicologo/psicoterapeuta e individui sono inseriti e i cambiamenti che in esso hanno luogo. Come professionisti il compito, a cui a nostro avviso siamo chiamati, è non solo cogliere i mutamenti umani e collettivi ma anche la natura delle interazioni tra fenomeni macro-sociali e intrapsichici.
In questo scenario, il compito della psicologia non può limitarsi a una semplice ottimizzazione della funzionalità individuale. Essa deve interrogarsi su come contribuire alla costruzione di una società più equa, inclusiva e sostenibile. In altre parole, il terapeuta non può rinunciare alla propria responsabilità etica e politica: quella di denunciare le disuguaglianze, sostenere l’autodeterminazione, promuovere il cambiamento, non solo nei singoli individui ma nei contesti sociali che essi abitano. Curare significa, allora, anche costruire alternative, poiché la salute mentale rappresenta la possibilità di vivere relazioni significative, partecipare alla vita collettiva, sentirsi riconosciuti, avere accesso a risorse e diritti.
Da questo punto di vista, iniziative come Psicoterapia Aperta rappresentano una possibilità per avvicinare i cittadini alla psicoterapia, attraverso la mediazione di un portale online, creando un ponte tra il clinico e il paziente. In un’ottica di benessere sociale è possibile, per il cittadino, individuare un professionista sul territorio che possa prendere in carico la sua domanda ad un prezzo accessibile. Pertanto, il digitale non va né idealizzato né demonizzato, ma governato eticamente in funzione di un progetto umano e collettivo di benessere. In tal senso possiamo intendere tali iniziative come promotrici di cura, che rispondono ad esigenze sociali che mirano alla riduzione dei divari tra i cittadini nell’accesso alle cure psicologiche.
Il clinico del XXI secolo è dunque chiamato ad affrontare molteplici sfide: svolgere il proprio lavoro clinico dentro la stanza ma anche nella e per la comunità, adattando il proprio lavoro ai cambiamenti tecnologici e socio-culturali. Non è più pensabile escludere le nuove tecnologie dal lavoro clinico, non soltanto in termini pratici, intesi come strumenti di lavoro, ma anche in termini culturali, per ciò che esse rappresentano nella vita quotidiana di tutti noi. Il clinico si trova di fronte a un compito paradossale: connettere l’istantaneità della rete con la profondità della relazione terapeutica, accogliere la frammentazione soggettiva senza farsi catturare dalla superficialità dell’interfaccia. Il digitale può essere un luogo generativo solo se attraversato da una clinica della presenza, una pratica che interroga sé stessa, le proprie cornici, le proprie ombre, valorizzando l’ascolto, la relazione e la riflessione. Non si tratta di rifiutare la tecnologia, ma di integrarla in modo critico, umano e trasformativo. Di abitare il presente senza farsi colonizzare dallo stesso.
È in questa tensione – tra intimità e collettivo, tra digitale e incarnato – che si gioca oggi il futuro della psicologia clinica e della psicoterapia. Una psicologia capace di rimanere presente alle trasformazioni del tempo deve saper sostenere il disagio individuale senza perdere di vista le sue radici relazionali, culturali e politiche. È questa la sfida che ci impegniamo ad attraversare come gruppo di lavoro, nella convinzione che ogni spazio clinico possa essere anche spazio di cittadinanza, e ogni incontro terapeutico un gesto di restituzione di senso, legame e possibilità.
Bibliografia
Articoli e fonti online:
Quotidiano Sanità. (2024, dicembre). Pandemia, disagio psichico e digitalizzazione: come è cambiata la richiesta di supporto psicologico.
Articoli scientifici:
D’Elia, A. (2024). Psicoterapia e giustizia sociale: Nuove prospettive cliniche. Ricerca Psicoanalitica, 35(1), 25–42.
Libri:
Foulkes, S.H. (1948). Introduzione alla psicoterapia gruppoanalitica. Roma, EUR edizioni (ed. it. 1983).
Illouz, E. (2008). Saving the modern soul: Therapy, emotions, and the culture of self-help. University of California Press.
Winnicott, D. W. (1971). Gioco e realtà. Armando Editore (ed. it. 1974).